lunedì 9 febbraio 2015

Intervista al Maestro Mauro Storti di Andrea Aguzzi



Quando ha iniziato a suonare la chitarra e perché? Che studi ha fatto e qual è il suo background musicale? Con che chitarre suona e con quali ha suonato?

E’ curioso che uno dei primissimi ricordi della mia infanzia sia legato ad un’immagine che ho ancora vivissima nella memoria: io bimbetto in piedi in un lettino e davanti a me mio padre che, sostenendo per il manico una chitarra, ne sollecita le sei corde suscitando in me un’indescrivibile emozione nel vederle vibrare in un sorprendente tripudio sonoro.
Mio padre non suonava la chitarra ma era sempre stato un appassionato frequentatore di compagnie di “musicanti” modenesi (fra i quali il padre del grande Luciano Pavarotti) e indubbiamente quella chitarra era entrata in casa nostra solo per il gusto di possederla e di poterla semplicemente toccare!
Una dozzina di anni dopo il caso volle (o forse ancora mio padre) che in occasione della Cresima del mio più giovane fratello gli venisse regalata una modestissima chitarra della quale però egli non sapeva che fare, e fu così che, caduta in mio possesso, ebbe inizio la mia avventura chitarristica.

Quali sono state e sono le sue principali influenze musicali?

In quel momento io venivo da una vita trascorsa per cinque anni in un collegio dove avevo imparato a leggere la musica cantando in coro dal gregoriano a Palestrina, da Hëndel a Perosi, da Mascagni a Verdi. Per contro mia madre, una Piccinini di Nonantola, cantava in maniera deliziosa le canzoni popolari in voga a quel tempo, mentre l’altro mio fratello maggiore che suonava magnificamente fin da giovane la fisarmonica, si avviava a farne la sua principale attività professionale.
Tra il mio gusto per la musica classica e il gusto per la musica leggera di mio fratello non ho mai avvertito alcun conflitto fino al momento in cui, scoperta quasi per caso alla radio la chitarra classica, non so se fosse Andrés Segovia, Ida Presti o Luise Walker ho lasciato da parte la chitarra “popolare” per andare alla ricerca di un metodo per suonare classico.

Con che chitarre suona e con quali ha suonato?

Come ho già detto, la prima chitarra era una povera cosa, piccola e con le corde di acciaio; si era nel’52 e delle corde di nylon, inventate solo da un paio di anni, non si sapeva nulla. Un deciso salto di qualità, visto l’infimo grado di partenza, avvenne con l’acquisto di un nuovo strumento armato di corde di nylon dei F.lli Masetti, liutai a Modena, che mi fu compagno per alcuni anni anche in occasione delle prime esibizioni alla radio. I passaggi successivi si chiamarono Enrico Piretti, Carlo Raspagni e infine, su consiglio di Alirio Diaz, Armando Giulietti al quale sono rimasto sempre fedele.

Quale significato ha l'improvvisazione nella sua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?

Penso che l’improvvisare sul repertorio classico prima che impossibile sia inutile. Fra i miei migliori allievi ne ho avuto uno, purtroppo scomparso prematuramente, di nome Daniele Russo che aveva una straordinaria abilità di improvvisatore (ne fa fede una video-cassetta che ho ancora in mio possesso). Si poteva sentirlo suonare un falso rinascomentale, barocco, classico o moderno e ritenersi convinti di ascoltare musica originale di Francesco Da Milano, di Bach, di Giuliani, di Ponce o di Villa-Lobos.
Ma una volta apprezzato lo straordinario gioco inventivo, si doveva riconoscere che non poteva derivare alcun vantaggio dall’ascolto di una musica falsa potendo suonare quella autentica. Ciò che può fare l’esecutore di musica classica è scavare in maniera sempre più approfondita nel significato profondo di una pagina musicale e nella ricerca dei mezzi più efficaci per esprimerne e comunicarne il contenuto.
Vincoli simili non esistono per altri tipi di repertorio, spesso nati proprio da processi
improvvisativi perfettamente adeguati a nuove e diverse caratteristiche di nuovi strumenti.

Come è nata la sua attività di didatta dello strumento? Quanto è ancora importante avere una ottima tecnica per un chitarrista? Glielo chiedo perché mi viene in mente un aneddoto: negli anni '70 Robert Fripp, pesantemente contestato da alcuni punk che lo consideravano ormai un dinosauro rispose serafico "chi è più schiavo della tecnica? Chi ne ha troppa o chi non ne ha?"

Sono partito da un doppio versante: da un canto la constatazione che i metodi che impiegavo per il mio studio, pur generalmente ritenuti ottimi, non davano risultati proporzionali al mio impegno e al dispendio di tempo. D’altro canto, la prova che i metodi elementari utilizzati nell’insegnamento presso la Scuola Musicale di Milano, in particolare il Carulli e il Sagreras, non riscuotevano alcun successo: dei 12 allievi iscritti al mio primo anno di lezioni, ben 8 non si iscrissero al secondo!
Fu allora, nel 1966 che gettati alle ortiche i soliti metodi, iniziai a progettare le prime pagine di un mio metodo personale che crebbe gradualmente negli anni mostrando di dare buoni frutti tanto per me che per i miei allievi.
Occorrerebbe molto tempo per spiegare le ragioni che stanno alla base delle direttive lungo le quali prese avvio lo sviluppo del nuovo iter didattico, ma alla base sta il gap tecnico-strutturale venutosi a creare tra la produzione musicale dei compositori chitarristi dell’Ottocento e quella dei compositori NON chitarristi del Novecento. A rivelare tale gap furono due straordinarie figure di chitarristi di estrazione tarreghiana: Miguel Llobet e Andrés Segovia, tanto ammirati quali sublimi artisti quanto incompresi quali innovatori della tecnica strumentale. Oggi più che mai per un chitarrista è di fondamentale importanza avere un’ottima tecnica ma c’è sempre il rischio incombente che molti non abbiano di mira che il fine di farne sfoggio, talvolta a grave discapito della qualità artistica.

Una domanda un po' provocatoria sulla musica in generale, non solo quella contemporanea o d'avanguardia, Frank Zappa nella sua autobiografia scrisse: "Se John Cage per esempio dicesse "Ora metterò un microfono a contatto sulla gola, poi berrò succo di carota e questa sarà la mia composizione", ecco che i suoi gargarismi verrebbero qualificati come una SUA COMPOSIZIONE, perché ha applicato una cornice, dichiarandola come tale. "Prendere o lasciare, ora Voglio che questa sia musica." È davvero valida questa affermazione per definire un genere musicale, basta dire questa è musica classica, questa è contemporanea ed è fatta? Ha ancora senso parlare di "genere musicale"?

Basterebbe chiedersi se i gargarismi di John Cage possono interessare qualcuno fino al punto di pagare per ascoltarli dal vivo o per comperarne una registrazione. Tuttavia anche il rumore di un gargarismo può essere utile per sonorizzare un’azione scenica, ma allora di fronte ad un evento sonoro si dovrebbe distinguere tra una semplice sonorizzazione o “musique d’ameublement” (come la definisce Honegger) e la vera e propria musica quando con il suo semplice fluire riesce a generare forti emozioni in chi la ascolta.

Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l'esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più "messa in crisi" dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella 'musica contemporanea, per non parlare del successo nella musica leggera, dove chitarra elettrica è ormai sinonimo di rock ... in quanto musicista polivalente e trasversale... quanto ritiene che ci sia di veritiero ancora nella frase di Berlioz?

Per sfatare l’idea che il repertorio della chitarra classica sia esiguo basta confrontarla con quella della viola o dell’arpa, ma quanto alla frase di Berlioz penso che sia ancor più veritiera per il cosiddetto compositore “classico contemporaneo” (qualifica impropria adottata da Maurizio Colonna) perché, a meno di limitarsi a produrre solo rumori, la musica da suonare, sia essa in stile antico, classico o contemporaneo, richiede di collocare entro i tasti del manico le quattro dita di una mano delle cui dimensioni, rimaste invariate nel tempo, egli è fatalmente costretto a tenere conto al momento di combinare i suoni.

Luciano Berio ha scritto "la conservazione del passato ha un senso anche negativo, quando diventa un modo di dimenticare la musica. L'ascoltatore ne ricava un'illusione di continuità che gli permette di selezionare quanto pare confermare quella stessa continuità e di censurare tutto quanto pare disturbarla", che ruolo può assumere la ricerca storica e musicologica in questo contesto?

Non saprei rispondere meglio che citando le esatte parole della musicologa francese Gisèle Brelet:”Rispettare l’opera musicale di un’epoca antica non vuol dire imprigionarla in un passato morto come vorrebbe chi ritenga che non possa vivere altrimenti che nel proprio habitat. Le opere belle rivelano un dualismo per il quale sembrano dotate di una esistenza ideale permanente che nell’esecuzione si può realizzare in maniera variabile; esse si sostengono per il loro valore intrinseco, indipendentemente dallo strumento sul quale vengono eseguite”. Intesa in tal senso, una ricerca musicologica che senza sopravvalutare i testi scritti sappia confrontarli con il reale contenuto spirituale da trasmettere, può indubbiamente contribuire ad arricchire il repertorio chitarristico.

Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una "globalizzazione" musicale?

Purtroppo tale rischio esiste e si può toccare, se non con le mani con le orecchie, quando un pur ottimo strumentista non presta più attenzione al peculiare carattere di ciascuno dei diversi brani che compongono il suo récital, infischiandosi bellamente di dati storici, formali, estetici e di ogni prassi esecutiva. Il motto sembra essere:” basta fare le note giuste”, e ho l’impressione che soprattutto gli esecutori particolarmente interessati alla musica contemporanea tendano ad assumere tale posizione superficiale che si traduce in un totale appiattimento sonoro delle loro esecuzioni.



Possiamo parlare un attimo della ristampa avvenuta qualche anno fa della sua produzione discografica? I suoi dischi in vinile furono stampati nel 1970 e nel 1974, il primo addirittura registrato in un'unica sessione come in un concerto, che ricordi ha di quelle registrazioni? Ci può raccontare qualche aneddoto? Come è nata l'idea di ristampare i suoi dischi di vinile in cd?

Devo premettere che conscio dei miei limiti, dovuti anche al mio lungo e accidentato percorso di apprendistato, non ho mai preso in considerazione l’idea di intraprendere una carriera concertistica ma, completamente volto ai problemi dell’apprendimento e della didattica, ho ritenuto indispensabile passare dalla mia personale sperimentazione alla verifica effettiva dei risultati scaturiti dai miei studi, verifica il cui valore non avrebbe potuto venire confermato che dall’esecuzione in pubblico di un repertorio qualificante. Passato il periodo nel quale potevo dare concretamente prova delle mie performances, mi è parso utile riesumare le incisioni discografiche degli anni ’70 quale testimonianza storica a sostegno della metodologia esposta nelle mie numerose pubblicazioni didattiche. In altri termini, mi premeva che le mie idee non rimanessero solo parole prive di reale valore pratico. La prima incisione fu fatta in presa diretta con l’impiego di un semplice registratore Grundig mentre la seconda fu realizzata in uno studio professionale dietro richiesta di un produttore che aveva visto il mio nome in una locandina esposta alle Messaggerie Musicali di Milano relativa ad una stagione concertistica del Comune di Sesto San Giovanni.



Con che chitarre vennero eseguite queste musiche? Devo ammettere di essere rimasto colpito dalla qualità di incisione di questo cd, il Maestro Marco Taio ha fatto un lavoro davvero eccellente ... mi sembra che anche lui sia un suo allievo vero?

Lo strumento impiegato per entrambe le incisioni è la Giulietti del 1962 di cui ho già parlato e che ancora oggi conservo in ottimo stato, insieme ad un secondo strumento che egli volle costruirmi, quasi perfettamente identico al primo, nel 1972 quando, profilandosi il rischio di un distacco del ponticello, avrei potuto correre il rischio di dovere interrompere l’attività concertistica. Marco Taio ha fatto un lavoro da vero professionista, dando prova del livello sempre eccezionale delle sue prestazioni, tanto come chitarrista che come tecnico del suono.

Come era la situazione per quando riguarda la chitarra classica in quel periodo? Immagino fossero anni difficili .... Anni di pionieri ...

Anni difficili e da pionieri furono quelli tra il ’50 e il ’60, quando non esistevano ancora i registratori e le fotocopie! I rari 78 giri andavano a ruba e si copiavano a mano decine di pagine di Sor, di Tárrega e di Barrios. Negli anni ’70 si era ormai avviato un vivace movimento di rinascita da attribuirsi in gran parte alla diffusione discografica e radiofonica di pezzi entrati poi nella mitologia come Giochi Proibiti e Recuerdos de la Alhambra e alla conseguente possibilità di assistere a concerti di artisti che, anche se non prestigiosi come Segovia che compariva solo a cadenza decennale, si chiamavano Yepes, Williams, Bream e, soprattutto, Alirio Diaz.

In generale come era la situazione musicale? Voglio dire .. oggi siamo abituati alla possibilità di poter ascoltare e acquistare praticamente tutto ma all'epoca .. senza internet .. come facevate a mantenere i rapporti, a trovare gli spartiti, a incentivare la musica per chitarra classica?

Ci si poteva conoscere più facilmente se si abitava in una grande città in occasione dei concerti di chitarra o dei saggi pubblici delle scuole di musica. C’erano un paio di riviste che recavano notizie spicciole, articoli sulla didattica, recensioni di concerti, pubblicità editoriali e liutarie, bandi di concorsi e di convegni, ecc. E c’erano diverse associazioni chitarristiche sparse un po’ ovunque ma avulse dal grande mondo musicale.

Cosa le sembra sia cambiato, in meglio o in peggio, rispetto a quel periodo storico?

A quel tempo con i primi arpeggi di Giuliani e di Carulli il chitarrista veniva introdotto gradualmente e felicemente ai misteri della musica classica arrivando col tempo ad apprezzare dapprima le pagine del limpido classicismo di Sor e Carcassi per poi addentrarsi sempre più, attraverso Tárrega, Mozzani nel più complesso linguaggio bachiano e novecentesco di un Ponce, di un Villa Lobos e di un Castelnuovo-Tedesco. Si trattava di un entusiasmante cammino di conquista culturale che senza la chitarra non sarebbe forse mai stato possibile.
Oggi il solidissimo e appassionato legame che teneva unito il piccolo mondo della chitarra si è allentato: ormai tutto è a portata di mano per tutti ma purtroppo sono venuti meno la voglia e il piacere della conquista faticosa. Ovviamente esistono le debite eccezioni il cui numero è però di gran lunga inferiore a quello imponente di giovani e ragazzi velleitari e svagati, disorientati anche dal richiamo di tante diverse chitarre.

Che consigli darebbe oggi a un giovane neodiplomato che volesse incidere un suo disco? E' ancora così importante poter uscire con un lavoro discografico?


Oggi è molto facile produrre un disco anche con mezzi estremamente sofisticati ma dubito che possa essere di grande utilità ai fini della notorietà se non si dispone di un importante apparato pubblicitario e distributivo che possano farsene carico. 


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