domenica 17 agosto 2014

L’arpa viggianese La storia di un riscatto sociale di Lucia Bova

L’arpa viggianese
La storia di un riscatto sociale



L’ occasione della Masterclass sull’arpa viggianese che sarà tenuta da Giuliana De Donno al Conservatorio “N. Piccinni” di Bari dall’11 al 13 Settembre 2014 offre l’opportunità di ricordare, seppur molto sinteticamente, l’importanza del fenomeno dell’arpa viggianese e della musica popolare nel sud Italia. Un fenomeno spesso ancora considerato marginale e che stenta a trovare la collocazione istituzionale adeguata. Il breve percorso che ci apprestiamo idealmente a tracciare si concluderà con la testimonianza di Giuliana De Donno, talento italiano della musica “etnica” e suonatrice di arpa viggianese, che ha dedicato la sua vita alla scoperta e allo studio di questo repertorio.

La mancanza di attenzione nei confronti della musica popolare e in particolare dell’uso dell’arpa in questo repertorio non è un fenomeno comune a tutti i paesi. Per esempio: chi non conosce l’arpa celtica e chi non sa quanto sia importante questo strumento per paesi quali l’Irlanda, la Scozia e le regioni del nord della Francia! L’orgoglio con cui gli irlandesi mostrano l’arpa nelle loro bandiere e sulle loro monete ricorda a tutto il mondo quanto si possa e si debba essere fieri della propria storia e delle proprie tradizioni. Analoga importanza a questo strumento viene data in sud America dove è estremamente popolare e vanta ancora oggi virtuosi in grado di strabiliare con le proprie tecniche esecutive e il brillante repertorio gli appassionati di musica di tutto il mondo.
Diversamente la grandissima tradizione popolare arpistica presente nell’Italia meridionale tra la fine del Seicento e l’inizio del Novecento, diffusa in regioni quali la Campania, la Calabria, l’Abruzzo e soprattutto la Basilicata è ancora poco conosciuta. Eppure gli studi sull’argomento attualmente esistenti si basano su di una ricchissima documentazione costituita da numerosissime fonti iconografiche e letterarie risalenti al Settecento e all’Ottocento.
In Basilicata, e in particolare a Viggiano, piccolo centro nella Val d’Agri, l’arpa è stato uno strumento assai presente, tanto che dagli archivi del Comune risulta che quasi in una famiglia su tre ci fosse un suonatore di arpa. Lo strumento era suonato, costruito ed insegnato secondo una tradizione radicatissima che si tramandava di padre in figlio. Ancora oggi è possibile trovare le testimonianze di tale passato passeggiando nelle vie di Viggiano e osservando i bassorilievi raffiguranti arpe che ornano i portali di antiche dimore, una volta di proprietà di famiglie di musicisti. E’ molto significativo poi che in tempi più recenti si sia deciso di celebrare il ricordo di questa importantissima tradizione commissionando un monumento all’arpista in bronzo che è collocato nell’atrio della Scuola Elementare di Viggiano.
La storia dell’arpa viggianese, o arpicedda - uno strumento alto circa 140-147 centimetri, diatonico (cioè privo dei sette pedali presenti nelle arpe classiche moderne necessari per ottenere le note alterate), di struttura sottile e leggera - è strettamente collegata alla storia di un popolo che ha sofferto per lunghi periodi miseria, povertà, carestie, terremoti e guerre. Viggiano e la Basilicata, sebbene abbiano conosciuto lunghi periodi di benessere, tra il Settecento e l’Ottocento erano tra le regioni più povere della penisola italiana, e spesso i genitori non avevano altro da lasciare ai propri figli che la loro conoscenza della musica, di come si costruiscono e si riparano gli strumenti e di come si suonano. Conoscenze tramandate di padre in figlio, affinate e sperimentate sul campo, che molto argutamente i viggianesi avevano compreso essere la loro ricchezza, in molti casi la loro unica ricchezza. Il sistema di trasmissione ed istruzione era sostanzialmente di tipo orale e pratico. L’apprendimento del repertorio e delle tecniche di arrangiamento ed elaborazione del repertorio avveniva per imitazione e suonando ad orecchio, provando e riprovando sotto l’amorevole controllo di chi ne sapeva di più. La tecnica per suonare veniva invece appresa su pochissimi testi provenienti per lo più dalla Francia, probabilmente sempre gli stessi, tramandati di padre in figlio e utilizzati da più famiglie. I segreti della liuteria e della lavorazione del legno si apprendevano nelle botteghe, assistendo al lavoro degli artigiani, cercando di carpirne i segreti, le intuizioni e facendo tesoro della loro esperienza.
Moltissimi viggianesi riposero le loro speranze di vita e di sussistenza nella musica, e in particolare nell’arpa, ed esistono innumerevoli documenti a testimonianza del fatto che almeno dall’inizio del Settecento (ma con tutta probabilità anche prima) cominciarono a viaggiare in Italia, in Europa e poi nel mondo intero per fare della loro arte un mezzo di sussistenza. Si spostavano in piccoli gruppi, facendosi apprezzare ovunque per la loro abilità di suonatori e di liutai, per le loro qualità musicali e per il repertorio, vasto ed estremamente variegato, costituito da musica popolare come pure da melodie tratte dalle opere più famose del tempo di compositori italiani quali Rossini, Cimarosa, Jommelli, Mercadante, Paisiello, Bellini e Donizetti.
Con la loro arte e grazie alle loro conoscenze e competenze molti riuscirono ad assicurare a se stessi e alle famiglie l’agio economico che consentì a tantissimi di uscire dalla miseria alla quale sembravano destinati, a garantirsi un futuro migliore e a far studiare i propri figli. In alcuni casi i figli degli arpisti viggianesi vennero mandati a studiare nei conservatori di musica e riuscirono successivamente ad essere assunti in prestigiose orchestre nazionali ed internazionali.
La storia dell’arpa viggianese è indissolubilmente legata alla storia di un popolo che si è ribellato ad un destino di povertà e che ha fatto delle proprie abilità e competenze, e soprattutto della propria arte e del proprio ingegno, gli strumenti di un grande riscatto sociale ed economico che non ha paragoni con alcuna altra storia di emigrazione. Per queste ragioni l’arpa viggianese alla fine dell’Ottocento è diventata addirittura un simbolo di orgoglio, di libertà, di coraggio, di forza, di speranza in un futuro migliore conquistabile con la conoscenza e l’abilità. Prova ne è che a Viggiano nel 1876 nacque un giornale dal nome L’Arpa Viggianese. Giornale popolare Educativo che nel proprio programma dichiarava:

[ … ] Prometto solo di essere fedele alla missione di un giornale che deve istruire e dilettare [ … L’Arpa di Viggiano] animata, com’è, dal desiderio del bene, del vero, e del giusto, sarà l’eco della voce della giustizia, della buona educazione, dell’educazione veracemente sana, e dei bisogni del popolo, specialmente di quella parte, che chiede istruzione, pane e lavoro, diritto incontrastabile e sacro di ogni uomo [ … ] La corda che vibrerà costantemente è quella che chiamasi dell’Istruzione con le due laterali attigue, che Educazione e Lavoro appellasi [ … ] L’altra principale corda, destinata a dilettare, vibrerà all’unisono colle suddette, e [ … ] conterrà Romanzi e buone letture [ … ] Racconti, Poesie e Biografie [ … ] tratterà dei viaggi più importanti, di Geografia, dell’emigrazione, del Commercio [ … ] L’Arpa griderà sempre istruzione, istruzione [ … ] I Redattori dell’Arpa non sono e non saranno mai servi a nessuno, nemmeno alle passioni di quel campo dove sono i loro interessi.

Nonostante l’importanza e la bellezza di questa tradizione oggi si conosce pochissimo dell’arpa viggianese, sebbene l’arpa viggianese sia stata di recente dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco e a Viggiano siano stati istituiti un attivissimo centro di studi, corsi di arpa popolare e classica e corsi di liuteria di arpa viggianese.
Come sia stato possibile dimenticare la storia di questo strumento e l’arte di chi la suonava non è facile dirlo ma si possono fare delle ipotesi. Forse una storia di miseria così profonda alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento diventò troppo scomoda e si preferì rimuoverla per impedire che l’immagine del nuovo Regno d’Italia unito potesse essere associato a storie spesso tristissime nelle quali governanti e politica non furono di alcun ausilio al popolo e nelle quali solo la forza interiore dei diseredati ha consentito ad un intero paese di uscire dalla disperazione.
Forse è per queste ragioni che alla fine dell’Ottocento all’immagine dell’arpista e del musicista itinerante che delizia gli astanti con la propria arte e il proprio talento (celebrata in tutto il mondo e per secoli da scrittori e poeti quali Johann Wolfgang von Goethe, Giovanni Pascoli, Giuseppe Gioacchino Belli e Charles Burney) si sovrappone l’immagine dell’accattone, che senza arte né parte, e soprattutto senza voglia di lavorare, importuna la gente nelle strade per mendicare l’elemosina. Ed è così che gli arpisti viggianesi dopo secoli di riconoscimenti e di gloria furono associati agli zingari, agli accattoni e denigrati al punto che quei pochi suonatori di arpa ancora viventi oggi hanno preferito tacere e nascondere per anni la propria storia e il fatto di aver conquistato il proprio benessere suonando l’arpa in giro per il mondo. Solo di recente, rendendosi conto di un rinnovato e sincero interesse nei confronti di questa importantissima tradizione hanno ripreso a suonare le loro arpicedde, a raccontare le loro storie e a tramandare le loro esperienze.
Ed è forse per le stesse ragioni che la musica popolare, tradizione importantissima del nostro Paese, non riesce ad essere riconosciuta nel suo pieno valore storico, culturale ed artistico.

Intervista a Giuliana De Donno

Lucia Bova: Hai iniziato i tuoi studi seguendo un percorso classico: il Conservatorio, il Diploma, poi gli studi accademici, i concorsi ecc. Vuoi parlarcene?

Giuliana De Donno: Mi sono avvicinata all’arpa all’età di 8 anni, ma già a 6 tormentavo i miei genitori affinché mi facessero suonare questo strumento che mia aveva profondamente colpita e affascinata vedendolo semplicemente nell’orchestra dei varietà televisivi del sabato sera. Il mio percorso di studi è iniziato presso il Conservatorio “E.R. Duni” a Matera, città in cui sono nata, mentre ho conseguito il diploma in arpa classica presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma sotto la guida della Prof.ssa Jolanta Jugo de Grodnicka. Successivamente ho frequentato il I anno del corso di arpa di Elena Zaniboni all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e poi le lezioni di Claudia Antonelli presso la scuola di Musica di Fiesole. Pochi i concorsi a cui ho partecipato (superati brillantemente) poiché li ho sempre percepiti e vissuti come una minaccia alla creatività e alla fantasia per via della eccessiva ostentazione di virtuosismo tecnico richiesto nelle selezioni. Una sana e formativa competizione l’ho esercitata invece sul campo, confrontandomi con vari generi e forme musicali e tanti bravi maestri, musicisti e colleghi.

L.B: Quando hai deciso di dedicarti al repertorio popolare e soprattutto che cosa ti ha spinto a specializzarti in questo repertorio?

G.D.D.: Dopo il diploma ho tenuto numerosi concerti di arpa classica sia da solista, che in formazione da camera e in orchestra. Per qualche anno ho conosciuto e approfondito la musica contemporanea e d’avanguardia, eseguendo anche composizioni in prima esecuzione assoluta. Perlustrai nuovi orizzonti musicali e scoprii la tavolozza infinita di suoni e colori che la musica può offrire, ma tanto ancora dovevo conoscere e studiare e così, compiendo un percorso al contrario, tornai alla musica tonale ripartendo dalla musica popolare. Arpa celtica, arpa sud-americana, arpa viggianese, tutti questi meravigliosi strumenti erano li che mi aspettavano! E custodendo come un prezioso tesoro la preparazione classica, iniziai a nutrire la mia curiosità approfondendo la ricerca nel campo della musica popolare. Così dopo i lunghi studi di arpa classica avevo nuovamente una mole di lavoro da affrontare, stili e tecniche nuove da imparare e, cosa più difficile, cambiare e rivoluzionare il mio approccio alla musica. Ho cercato e inseguito maestri arpisti - talvolta raggiungendoli dall’altra parte del mondo - che mi insegnassero l’arte delle arpe popolari. Per le strade di antichi paesi del Sud Italia ho danzato e ascoltato la musica suonata proprio dai musicisti della tradizione per poterne carpire i segreti. Ho suonato con gruppi e orchestre popolari come quella della Notte della Taranta, con cui ho cimentato la mia fantasia, allenato il mio orecchio e imparato anche l’arte di adattare e arrangiare la musica per il mio strumento… ma nel vero senso della parola, dal momento che su un programma di 40 brani da eseguire con l’orchestra, non avevo neanche una nota scritta sullo spartito … e di fronte a quel palco c’erano più di 10.000 mila persone ad ascoltarci! La musica, vissuta come energia, tensione, sfida, conoscenza, ma soprattutto rapporti umani, gioia e divertimento, è stata la forza propulsiva che mi ha spinto a superare i tanti momenti di difficoltà e a mettermi costantemente in gioco.

L.B.: Quali sono le arpe che suoni nei tuoi concerti?

G.D.D.: Arpa celtica elettroacustica, arpa paraguayana e l’arpa viggianese della quale posseggo un prezioso esemplare di metà ‘800 che vista la rarità utilizzo solo in situazioni particolari.

L.B.: In breve quali sono le differenze tra queste arpe popolari e l’arpa classica?

G.D.D.: La differenza principale è che l’arpa classica è semi-cromatica e ha sette pedali per poter alterare i suoni prodotti dal pizzico delle corde, mentre l’arpa celtica ha le levette a capo di ogni corda che consentono un uso limitato delle alterazioni (solo un semitono) e si azionano con una mano, talvolta anche mentre si suona. La stessa cosa avviene per la viggianese che ha i cosiddetti bischeri (levette) ma non su tutte le corde; invece l’arpa paraguayana è diatonica e le alterazioni si ottengono con una tecnica speciale grazie all’utilizzo di un ditale. Altra differenza sostanziale sono i materiali delle corde e la relativa tensione: nella arpa classica e nella maggior parte delle celtiche, le corde sono di metallo, budello e nylon; la viggianese ha invece tutte le corde di budello, mentre la paraguayana le ha tutte di nylon. Questo fa sì che il suono e il timbro caratterizzino ciascuna arpa e che la tecnica per suonarle, e quindi l’impostazione delle mani, siano differenti. Sull’arpa classica si utilizzano i polpastrelli per affrontare la forte tensione delle corde causata dal maggiore spessore delle corde; invece sulle arpe popolari, che hanno le corde di spessore inferiore e minore tensione, si utilizzano le unghie alternate ai polpastrelli.

L.B.: La musica popolare in Italia è sufficientemente compresa e valorizzata?

G.D.D.: Nelle istituzioni italiane il valore e l’importanza storica e culturale di questo repertorio sono ancora poco compresi e evidenziati. Malgrado ciò si è avviato da diversi anni un processo di valorizzazione e riscoperta dell’enorme patrimonio musicale popolare italiano e non solo, ad opera di numerosi studiosi, ricercatori, etnomusicologi, giovani e validi musicisti che si sono assunti l’oneroso compito di riscoprire questa tradizione. La musica in quanto linguaggio universale è patrimonio della intera umanità, non conosce confini, colori di pelle e differenze sociali, pertanto deve essere di tutti e accessibile a tutti!
Ritengo che sia stata una grande rivoluzione l’aver introdotto nei Conservatori italiani l’insegnamento della musica jazz, ma bisogna fare attenzione, perché rinchiudere ancora una volta i generi musicali in compartimenti stagni vorrebbe dire mortificare, limitare la formazione e la cultura di un giovane musicista. Sarebbe invece interessante fargli scoprire quali sono le relazioni tra generi musicali apparentemente distanti, raccontandogli ad esempio come Mozart, Prokof’ev o Rossini attingessero per le loro composizioni dal patrimonio musicale popolare; che Britten quando era a Napoli andava alla ricerca del teatro dei pupi per trarre spunti per le sue opere e che le origini del jazz provengono dai ritmi della lontana Africa. Evidenziare inoltre come le composizioni di Bach, Debussy e tanti altri importantissimi compositori classici abbiano forgiato generazioni di raffinati e straordinari musicisti jazz, rock e pop, e ancora, come le bande musicali del Sud Italia o la musica barocca europea siano state da esempio e riferimento per molte tradizioni musicali del Sud-America. Insomma, penso che far comprendere e far conoscere la storia e le origini che hanno dato vita agli strumenti e alle varie espressioni musicali e come queste ultime si siano fuse, miscelate, sviluppate e ricreate, dovrebbe essere tra i primi obiettivi di un’Istituzione di Alta Formazione Musicale.

L.B.: Che cosa sarebbe utile per la valorizzazione di questo repertorio?

G.D.D.: Semplicemente farlo conoscere e diffonderlo negli ambiti desueti, con l’ausilio di esperti e di ricercatori, attraverso incontri e concerti eseguiti da musicisti attenti alla tradizione ma nel contempo aperti alle innovazioni e alle contaminazioni.

L.B.: Perché è didatticamente importante che gli allievi si avvicinino alla musica popolare e all’improvvisazione?

G.D.D.: Per avere un approccio alla musica meno strutturato e più libero! Non dimentichiamo che molte delle composizioni dal ‘500 al pieno ‘800 lasciavano ampi spazi all’improvvisazione e alla creatività dell’interprete. Improvvisare vuol dire necessariamente esplorare e sfruttare le numerose risorse sonore e timbriche del proprio strumento, sperimentare nuove tecniche e, ancora, conoscere l’armonia e il ritmo, come anche analizzare, smontare, rimontare, capovolgere, stravolgere e ricreare un brano intero! Sembra un paradosso, ma il processo di apprendimento si articolerebbe così in due fasi: prima di strutturazione e poi di destrutturazione. Conoscere e capire prima, consente di liberarsi e lasciarsi andare alla fantasia e alla creatività poi. Questo percorso porta a una conoscenza così profonda della musica da determinare nell’allievo una sicurezza e una consapevolezza tali per cui anche ritornare poi allo spartito convenzionale e affrontare qualsiasi pagina musicale, che sia di repertorio classico, contemporaneo oppure barocco, sarà puro divertimento!

L.B.: Credi che i Conservatori di musica possano essere dei luoghi adatti per lo studio della musica popolare? Perché?

G.D.D.: I Conservatori di musica sono e devono essere i luoghi dove imparare la musica in toto. L’offerta formativa dovrebbe essere a 360° e riguardare tutte le massime espressioni musicali, di modo che poi ognuno possa scegliere la propria specializzazione!

L.B.: Ci sono altri Paesi nel mondo dove la musica popolare è entrata nei Conservatori o nelle Istituzioni deputate alla formazione in ambito musicale? E perché in Italia ciò non è successo?

G.D.D.: In molti paesi del mondo e d’Europa (come in Francia, Irlanda, Spagna) la musica e gli strumenti popolari non sono uno scandalo se insegnati nei Conservatori o nelle istituzioni deputate alla formazione musicale. Da noi ci sono solo alcuni corsi di etnomusicologia, ma certamente non di zampogna, organetto, launeddas, chitarra battente, arpa popolare ecc. Bisognerebbe fare un’attenta analisi dal punto di vista storico, antropologico, sociale e culturale degli ultimi 50/60 anni per comprendere come e perché il nostro Paese abbia voluto dimenticare, se non perdere, la sua memoria storico-culturale, trattenendo solo quelle forme ed espressioni artistiche che potessero essere riconosciute all’estero … con questa piccola provocazione lascio aperta la risposta, con l’auspicio che in futuro qualche giovane studioso potrà darcene una obiettiva ed esauriente.

(Lucia Bova, Conservatorio “N. Piccinni” di Bari, interprete e autrice di saggi sull’arpa moderna e contemporanea)

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