giovedì 18 novembre 2010

Torture Gardern dopo vent'anni, seconda parte di Empedocle70



E arriviamo a Torture Garden. La musica e la copertina del disco, che riporta immagini tratti da un film sado-maso, sono causa del divorzio tra Zorn e la Nonesuch Records. Il disco viene prodotto dalla tranquilla casa discografica indipendente svizzera HotHat e segna l’inizio del rifiuto ostinato di Zorn verso qualunque contatto con i giornalisti e i critici musicali: i violenti riferimenti alla scena hard core e metal dividono la critica e il pubblico. Torture Garden diventa subito un disco che si adora o che si odia. No compromise.

“Con tutto il rispetto, i critici non hanno capito niente, assolutamente niente di ciò che succede sul palcoscenico, soprattutto con l'hardcore. E' sempre comunque un problema di musicisti. Ce ne sono alcuni che suonano i soliti cliché perché, ad esempio, vogliono essere considerati musicisti jazz, e questo già può sembrare una cosa giusta... oltretutto da questa posizione potranno ricavare status, soldi, fama. Ce ne sono altri, hardcore, che suonano anche in bands minori, che sono sul palcoscenico perché amano la musica, e sono eccezionali, gente veramente aperta con cui ho suonato spesso e che ho scelto perché amo quello che fanno, quello che riescono a dare e in loro vedo ugualmente la possibilità di aprire la musica, renderla una forma ancora vivente.”

Torture garden: aggressività strampalata di una generazione di estrema estrazione, swing nevrotico che si espandeva su brani di 30-40 secondi, uno schizzatissimo grind alla Scum\ From Enslavement To Obliteration, dei primissimi e primitivi Napalm Death di Lee Dorrian\Mick Harris, un mood isterico che percorreva un tratto di assoluto non-controllo sonoro. Destabilizzazione sonora e mentale?
Col cavolo! Zorn e soci sapevano (e sanno) benissimo cosa facevano (e fanno). Ho letto numerose critiche e recensioni che parlavano (in positivo e negativo) di improvvisazione libera. Nulla di tutto questo. Nessuna improvvisazione: tutto in questo disco è stato preparato, composto e scritto con un tratto compositivo che presenta una sua ben definita caratteristica qualitativa jazz\fusion\swing aperto su un delirante e strettissimo grind\core, devastato dalla disumana voce (o kyai) di Yamatsuka Eye, vero pioniere del grind.

E' comunque in “Torture Garden” che si accelera al massimo il processo di frammentazione: c'è anche un riferimento preciso nei titoli e nelle immagini allo splatter..

“Sì, ci sono delle splatter band che mi interessano molto. Così, di nuovo, io metto insieme le cose nel mio particolare modo, che talvolta funziona, altre no, per creare un mondo che io penso non esista prima. In “Torture Garden” il mio lavoro fu di connettere insieme cose differenti da mondi diversi: elementi dell'hardcore, della mia vita in Giappone, del mio amore per il cinema. Tutti questi elementi informano di sé la creazione di quell'album: nessuna cosa specifica e molte cose in una miscela che era di grande frammentazione, di cambiamenti improvvisi che mi hanno interessato da sempre. Fin da quando ho cominciato a lavorare sull'improvvisazione, a suonare e lavorare con gli altri musicisti, ho cercato di creare situazioni in cui i cambiamenti repentini fossero possibili.”
Di fatto è presente in molti tuoi lavori la volontà precisa, quasi un ansia di incorporare tutti gli elementi e generi disponibili come in una sorta di “microchip”...

“Non è semplice rispondere. In questo momento, quando penso a questo argomento credo che in una realtà tecnologica come l'attuale, in cui siamo esposti a migliaia di segnali, e in cui l'informazione è sempre più veloce, sia da un lato necessario stare al passo con queste cose: è un modo di vivere e di pensare con cui fare i conti. D'altro canto, ora come ora, penso che niente sia cambiato in migliaia di anni nella società umana. E' sempre lo stesso. Nessuno in realtà, ha imparato niente, continuiamo a fare gli stessi errori nonostante tutto. Le cose intorno sono cambiate, ma la gente è sempre esattamente la stessa nonostante le informazioni. Siamo circondati da una giungla tecnologica in cui per sopravvivere è necessario cambiare continuamente... forse è giusto... ma non ne sono così certo...”

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