giovedì 10 settembre 2009

Intervista di Antonio Rugolo di Empedocle70 parte terza


Una delle cose che posso sinceramente dire di amare della chitarra è la sua capacità di trasformazione nella Forma musicale nei secoli e di medium tra le varie forme musicali, non ultima quella popolare. Diversi compositori hanno saputo attingere al repertorio popolare della propria cultura infondendo nuova linfa al repertorio classico e contemporaneo, lei che è eccellente interprete di Ginastera e Santórsola come riesce a “tradurre” queste influenze nelle sua musica, pur essendo italiano?

Sono un italiano del Sud e credo che non sia un dettaglio da trascurare: tutti i Sud del mondo hanno delle radici comuni ed in particolare il sud Italia con il sud America.
Santórsola è stato per me una “folgorazione” e devo la sua scoperta alle intuizioni del M° Zigante che ha letto in me un possibile interprete della sua musica e della musica sud-americana del ‘900 non votata al semplice folklorismo. La “Sonata Italiana” incisa in “Guitarreo” è stata amore a prima vista, dal 1° Tempo seriale, al neoclassico Reverie, sino alla Tarantella politonale; i ritmi travolgenti della Sonata di Ginastera e le melodie suadenti delle Danze di Pedrell sono elementi che hanno da sempre caratterizzato ed assecondato il mio istinto musicale.
Mi piacerebbe raccontare un episodio che in qualche modo ha cambiato le mie visioni. Ero a lezione con Alirio Diaz nel 1996 e stavo suonando i “Quatro Valses Venezolanos” di Antonio Lauro, ad un certo punto il Maestro imbraccia la sua chitarra ed incomincia ad accompagnarmi improvvisando ritmi ed armonie travolgenti. Una emozione incredibile, un segnale forte: la musica della sua terra è danza, ritmo, pulsioni del corpo. Il suo modo di suonare è stato il modo più diretto per farmi capire cosa volesse dire l’accento e la sincope in Sudamerica: è un ballo del corpo ed è indispensabile ballare con il proprio strumento come se fosse una dama e come Diaz faceva in modo insuperabile; corpo – gesto - suono in un unico messaggio sonoro. Difficilmente avrei potuto interpretare quella musica in modo efficace senza questo incontro. Le ricerche fatte poi qualche anno dopo mi hanno messo di fronte alle Sonate dei Compositori più autorevoli del Sud America: Ginastera, Gilardi, Guastavino, Grau, Santórsola sono stati tutti “servi” di questa danza perpetua che ha attraversato le loro anime ……….. e forse ora attraversa un po’ anche la mia.

Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

Non credo si possa parlare di “globalizzazione” musicale come di un problema. Forse la vera difficoltà è nel riuscire a suonare o comporre in modo originale, nuovo o avere il coraggio di essere “diversi”. Quello che apparentemente può sembrare un rischio di omologazione credo che sia per l’ artista moderno (compositore o interprete) anche una grande ricchezza e un forte stimolo; intendo dire che in questi anni e secoli abbiamo potuto assistere alla creazione di grandi capolavori e all’ ascesa di magnifici interpreti che hanno aiutato le generazioni moderne ad essere migliori. E’ il tempo che renderà poi giustizia ai veri nuovi capolavori e lascerà cadere nell’ oblio tutta quella musica e tutti quegli interpreti che non hanno operato in modo “creativo”.

Ho notato in questi ultimi anni un progressivo avvicinamento tra due aspetti della musica d’avanguardia, da un lato l’aspetto più accademico e dall’altro quello portato avanti da musicisti ben lontani dai canoni classici e provenienti da aree come il jazz, l’elettronica e il rock estremo come Fred Frith, John Zorn, la scena downtown newyorkese e alcune etichette di musiche elettroniche come la Sub Rosa e la Mille Plateux. Che ne pensa di queste possibile interazioni e pensa che vi sia spazio anche per esse in Italia?

Questo sinceramente non lo so, ma credo che all’ arte non si possano mettere barriere; se Santórsola ha scritto Tarantelle e Malambo dodecafonici, perché non pensare a contaminazioni di ogni altro genere. Tutta la musica e l’ arte sono frutto della convivenza e della commistione di generi, stili e culture diverse che sarebbe impensabile, oltre che sciocco, frenare.

Sembra essersi creata una piccola scena musicale di chitarristi classici dediti a un repertorio innovativo e contemporaneo, oltre a lei mi vengono in mente i nomi di Marco Cappelli, David Tanenbaum, David Starobin, Arturo Tallini, Geoffrey Morris, Magnus Anderson, Elena Càsoli, Emanuele Forni, Marc Ribot con gli studi di John Zorn … si può parlare di una scena musicale? Siete in contatto tra di voi o operate ciascuno in modo indipendente? Ci sono altri chitarristi che lei conosce e ci può consigliare che si muovono su questi percorsi musicali?

Fortunatamente ormai da diversi anni anche noi chitarristi abbiamo scoperto le enormi potenzialità espressive dei “nuovi” linguaggi grazie anche alla riscoperta di repertori poco frequentati dalle generazioni legate troppo a lungo esclusivamente al repertorio segoviano. Siamo ormai di fronte ad una scena musicale nuova che coltiva ed approfondisce in modo continuativo percorsi e strade diverse.
Di questi artisti ho incontrato una sola volta Elena Càsoli a Milano durante la presentazione della “Guitar Collection” della Stradivarius; per il resto conosco molto bene i lavori di molti di loro ma non condividiamo direttamente i nostri progetti.






continua domani...

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